9. I Gracchi
9.1 Quando vien meno la virtù
Vi sono alberi, i quali impiegano un lungo periodo di tempo per attecchire e rizzarsi verso il cielo con un tronco sufficientemente saldo: ma poi, abbarbicate saldamente le radici al terreno, gettano quasi d'improvviso una imponente fioritura e una ramificazione folta, che pare occupi tutto il cielo.
Così fece Roma quando, dopo secoli di lotta tenace in terreno italico, affrontò le vie ampie del mare e contese il primato del Mediterraneo al più potente popolo di navigatori del tempo. Un secolo occorse all'audacia e alla tenacia di Roma per debellare pienamente Cartagine; ma quello stesso secolo la portò alla padronanza di tutte le più ricche terre mediterranee, sedi di gloriose civiltà. Africa, Grecia, Macedonia, Illiria, Gallia Cisalpina, Spagna avevano dovuto inchinarsi alla potenza romana; nella lotta immensa s'erano impegnate e avevano trionfato le virtù essenziali della stirpe: la frugalità, la disciplina, la rettitudine, la saldezza di propositi, l'illimitato amore di patria.
Ma proprio mentre Roma coglie i frutti di tali eroiche e umane virtù, queste cominciano a venir meno. Le grandi ricchezze, che in forma di oro, di pietre preziose, di essenze, di tessuti, dei più svariati prodotti della terra, le Province nuove mandano a Roma, pare contengano un sottile veleno; pare rappresentino come una vendetta dei territori sottomessi, perché i frugali, prodi romani s'abituano rapidamente ai lauti pranzi, alle ricchezze e agli agi che indeboliscono la volontà e il carattere.
Si può però a tutta prima pensare che i cittadini di Roma siano contenti, e, in mezzo a tanta abbondanza, vivano lietamente e pacificamente. Invece, proprio in questo secondo secolo avanti la nascita di Cristo, tumultuano nell'Urbe le lotte di classe, che arrivano a macchiare di sangue fraterno il vetusto Campidoglio.
Non sembri strano questo. Ove un popolo è tutto modesto, ciascuno sta contento nella sua frugalità; in un popolo di arricchiti, accade sempre che la ricchezza sia in mano di pochi, dei più fortunati o dei più scaltri, e che la popolazione povera, di fronte all'altrui ricchezza, sia anche più insofferente della propria miseria.
Non dimentichiamo, anche, che a Roma erano affluite, con l'aumentare delle conquiste, genti d'ogni specie: un'accozzaglia di poveri, che non è più la laboriosa plebe che Menenio Agrippa aveva paragonato alle membra del corpo umano, ma è anzi come l'acqua torbida dei torrenti che inquina e appanna le acque dei fiumi più grandi. La nuova plebe, non disciplinata né affratellata nell'amor della Patria, ha di fronte una ingente quantità di nobili; ma anche questi non sono più i patrizi discendenti dai fondatori di Roma: sono degli arricchiti, non sempre degni della loro privilegiata posizione sociale.
La pace di Roma è turbata anche da un'altra misera specie di uomini, posti all'infimo scalino sociale: gli schiavi, che formano una innumere, imponente falange di varie nazionalità di vario colore, insofferenti delle catene imposte loro dai vincitori.
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